Ed è proprio sul piano del diritto sostanziale che ne è venuta fuori una trama fitta di norme emergenziali e transitorie, tese ad interrompere il normale corso dei rapporti negoziali per l’anno in corso, nell’attesa di tempi migliori.
Il Giudice di Legittimità ha compiuto una decisa inversione in favore della rinegoziazione quale soluzione ottimale per il riequilibrio dei rapporti commerciali a seguito della sopravvenienza pandemica, sancendo l’esistenza di un dovere di rinegoziazione in capo alla parte avvantaggiata, basato sul principio di buona fede oggettiva ed infatti molto si parla, nei tempi di quest’emergenza, della rinegoziazione dei contratti pendenti tant’è che il tema, può dirsi, rappresenti a livello giurisprudenziale uno degli enormi dibattiti che la pandemia è venuto ad innescare. La rinegoziazione sembra spiccatamente tendente a condurre il contratto verso una prosecuzione del rapporto, con ridefinizione del programma negoziale.
I criteri attraverso i quali apprezzare il comportamento delle parti, nel corso delle trattative destinate alla rinegoziazione del contratto, sono anche in quest’occasione rappresentati dalla clausola generale di buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.), che non è regola sul contenuto contrattuale ma sulla condotta da tenere per una corretta conclusione dello stesso.
La Corte di Cassazione ha dato così il via libera alla rinegoziazione dei contratti, sul principio della reciproca buona fede, in seguito all’emergenza Covid-19 ed alle misure introdotte durante gli ultimi mesi. E si è andati anche oltre, con sentenze di merito che hanno riconosciuto un diritto alla rinegoziazione del canone d’affitto, in modo che negozi e attività commerciali possano ottenere uno sconto per l’affitto, se qualora i loro incassi siano crollati per via dell’emergenza sanitaria in atto.
Al giudice andrebbe riconosciuto il potere di sostituirsi alle parti pronunciando una sentenza che tenga luogo dell’accordo di rinegoziazione non concluso, determinando in tal modo la modifica del contratto originario ed alla parte che per inadempimento dell’altra non ottiene il contratto modificativo, cui ha diritto, andrebbe riconosciuto il diritto di chiedere al giudice che la costituisca con sua sentenza.
Il principio, con una sentenza che rischia di essere un importante precedente e che farà discutere, è al centro di un’ordinanza del Tribunale civile di Roma con cui il 27 agosto 2020 si dà ragione ad un ristoratore. Quest’ultimo, con un ricorso cautelare ex art. 700 c.p.c., aveva chiesto sia di ridurre il canone di locazione per i mesi del lockdown sia, soprattutto, che il suo proprietario non facesse scattare la fideiussione versata proprio come forma di garanzia in caso di morosità. Potrebbe trattarsi di un precedente giuridico importante, ma l’ordinanza, per quanto esecutiva, è un atto cautelare, che non risolve la questione, probabile oggetto di ulteriore dibattimento.
Nel caso di specie è stato violato da parte del locatore il canone di buona fede in senso oggettivo, poiché sono state poste delle condizioni sospensive relative all’escussione della fideiussione a garanzia dell’adempimento, che avrebbero solo aggravato la precaria situazione del ristoratore, portandolo sicuramente alla definitiva cessazione dell’attività.
È per questo motivo che l’ordinanza del Tribunale di Roma ha riconosciuto la riduzione quasi della metà del canone di locazione per i mesi riguardanti il lockdown generalizzato ed inoltre una riduzione degli stessi nella misura del 20% fino a marzo 2021, nonché la ovvia sospensione della garanzia fideiussoria.
In ogni caso il giudice si è ben guardato dal sentenziare che uno sconto dell’affitto sia automatico dopo lo scoppio del Covid; può invece essere ottenuto quando l’operatore, proprio a seguito della crisi dei consumi generata dalla pandemia, non possa sfruttare appieno i locali affittati proprio per offrire i servizi alla clientela ovvero quando ci siano delle condizioni esterne che impediscano il regolare svolgimento delle attività lavorative, quali le limitazioni cui le attività commerciali sono state sottoposte a seguito dell’emanazione dei vari DPCM.
Lo shock economico senza precedenti generatosi a causa dell'emergenza epidemiologica Covid-19, che ha di fatto impedito ad una molteplicità indefinita di commercianti di liberarsi dalle obbligazioni contrattuali prime fra tutte l’affitto, strumentali alla loro attività, ha trovato una mitigazione nella normativa emergenziale ispirata, per quanto possibile, al difficile riequilibrio di posizioni opposte.
Segue questa linea anche il Tribunale di Palermo ed infatti con l’ordinanza del 25 settembre 2020, ha ritenuto non possa decretarsi sussistente l’inadempimento grave del conduttore, per via della grave situazione di emergenza sanitaria, che ha portato all’adozione dei provvedimenti governativi di chiusura degli esercizi commerciali per diversi mesi.
Difatti, il Tribunale di Palermo, sulla richiesta di pronunciare la risoluzione contrattuale per morosità in relazione ad un esercizio commerciale ne ha negato la convalida, rigettando l’istanza proposta dal locatore che aveva dedotto inadempimenti sorti durante il periodo di chiusura forzata.
Qualora il sinallagma contrattuale sia stravolto dalla pandemia e la parte avvantaggiata disattenda gli obblighi di protezione nei confronti dell’altra, limitare la tutela di quest’ultima alla risoluzione e al risarcimento del danno significherebbe la demolizione del rapporto contrattuale, contro il volere della clausola di buona fede, che invece la rinegoziazione è volta a scongiurare.
La situazione risulta particolarmente delicata poiché il combinato disposto di norme non sempre determinate (che pertanto lasciano maggiori spazi all’interprete) e di assenza di un consolidato orientamento giurisprudenziale potrà essere causa di disorientamento nei soggetti e negli operatori economici circa i comportamenti da tenere nonché di un aumento del contenzioso.