Le forme dell’attivita’ amministrativa: il silenzio della p.a.

“Quale tutela per il soggetto che ha presentato l’istanza sulla quale si è formato il silenzio?”

L’atto è manifestazione tipica dell’attività amministrativa, ma non esclusiva della stessa, attesa la possibilità per la pubblica amministrazione di esprimersi anche mediante forme comportamentali. Tra queste, l’inerzia, ossia la cosiddetta attività amministrativa per silentium. Vedremo, quindi, quali e quante tipologie di silenzio popolano il tessuto normativo pubblicistico e di quali strumenti gode il privato cittadino per reagire alle stesse.

Il silenzio, quale forma di attività amministrativa semplificata, opera anche nel settore del diritto civile. In entrambi i contesti giuridici, il silenzio può essere secundum ius, al quale cioè l’ordinamento attribuisce un certo significato, positivo (di assenso) o negativo (di diniego), ovvero non iure, come tale non conforme all’ordinamento giuridico e perciò fonte di responsabilità della P.A.

E’ noto, inoltre, come il silenzio interessi anche i rapporti orizzontali tra pubbliche amministrazioni e non solo quelli verticali tra privati e P.A., i quali richiederebbero una indagine specifica circa il rapporto tra l’art. 17 bis della legge n. 141 del 1990 e la conferenza di servizi decisoria. Tuttavia, non essendo questo il tema oggetto della presente analisi, si ritiene sufficiente la sola menzione finalizzata a fornire un quadro introduttivo generale degli ambiti attratti dall’istituto in esame.

Abbiamo già evidenziato in premessa come l’attività amministrativa possa esplicarsi anche in forma non attizia, ma in forma comportamentale. Il frutto di quest’ultima modalità di agire è costituito dal silenzio, il quale si manifesta nel diritto civile (ossia nei rapporti tra privati) come comportamento antigiuridico laddove sul soggetto gravi ex lege un dovere di informazione. Per fare dei brevi esempi, basti richiamare l’art. 1337 c.c., che, imponendo un obbligo di buona fede nelle trattative precontrattuali, sancisce anche un obbligo di informazione; il contatto sociale qualificato, a sua volta fonte di obblighi di protezione e di informazione; i rapporti tra medico e paziente, fondati sui doveri informativi gravanti sul medico e così via.

In altri termini, dove vige un dovere di informazione, come nei casi elencati, il silenzio del soggetto è un silenzio non iure, che genera contestualmente responsabilità e diritto al risarcimento del danno correlato.
Non solo, ma a differenza della regola generale che vige nel diritto civile e che attribuisce al silenzio il valore di diniego, salvo le eccezioni previste in quanto tali da specifiche norme di legge, nel diritto amministrativo si ribalta anche il rapporto tra regola ed eccezione. La ragione risiede nei principi generali che permeano le due materie: da un lato, quello di libertà personale, in base al quale nessuno può essere costretto a rispondere al fine di non accogliere l’istanza (diritto civile) e dall’altro quello

di semplificazione, che pone la regola generale del silenzio-assenzo come rimedio preventivo all’inerzia della pubblica amministrazione.
Venendo ora al caso che ci occupa, è chiaro come l’esigenza di tutela del soggetto che ha presentato l’istanza è un’esigenza che non si pone nei casi di silenzio-assenso, ove lo stesso vede accolta la propria istanza. L’unico problema che si può porre in queste ipotesi attiene eventualmente alla legittimazione del privato a svolgere l’attività - consentita dal contegno silente della pubblica amministrazione - da risolvere mediante l’esperimento dell’azione di accertamento (dell’avvenuta formazione del silenzio) finalizzata a eliminare l’incertezza.

Lo stesso può dirsi per il silenzio-diniego, equivalente a un provvedimento di rigetto dell’istanza, il quale, comportando il mancato conseguimento del bene della vita da parte del privato, pone tutt’al più la necessità di tutela impugnatoria dell’istante.
Quest’ultimo tipo di tutela, tenendo di fatto all’accertamento della fondatezza della pretesa del privato, è equiparabile a quella esperibile nel caso di silenzio-inadempimento.

Nel caso in cui la P.A. si renda inadempiente rispetto al dovere di concludere il procedimento nei termini previsti dalla legge, invero, la tutela dell’istante varia in base alla tipologia dell’attività amministrativa in essere. Il silenzio-inadempimento può dunque determinare:

-  una tutela limitata all’accertamento dell’obbligo di provvedere e alla condanna dell’amministrazione a eseguire il suddetto obbligo. Sarà la stessa amministrazione a pronunciarsi nel senso che riterrà più opportuno;

-  una tutela effettiva, ossia l’accertamento dell’obbligo di provvedere, l’accertamento della fondatezza della pretesa del privato e la conseguente condanna dell’amministrazione a provvedere in senso conforme all’istanza ricevuta (c.d. condanna pubblicistica). Sostanzialmente, la P.A. sarà tenuta al rilascio del provvedimento favorevole.

Si tratta, evidentemente, di due diverse tipologie di tutela: un conto è la tutela che conduce all’accertamento dell’obbligo di provvedere e a una condanna generica in tal senso dell’amministrazione; un conto è l’azione volta all’accertamento dell’obbligo di provvedere e all’accertamento della fondatezza della pretesa, con condanna ad adottare il provvedimento richiesto dal privato.

Quest’ultimo tipo di tutela, senz’altro più soddisfacente del primo, è esperibile a due condizioni:

- assenza di discrezionalità amministrativa (laddove ci fosse, il giudice non potrebbe intervenire perché, così facendo, si sostituirebbe all’amministrazione in un’area di competenza

esclusivamente riservata alla stessa);

- assenza di incombenze istruttorie. Ciò vuol dire che si può condannare l’amministrazione al rilascio di un certo provvedimento a condizione che per quella condanna non occorrano ulteriori adempimenti istruttori.

Un caso pratico in cui si configura un silenzio-inadempimento da parte della P.A. è quello del silenzio serbato dalla stessa sulla SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività), a fronte dell’istanza presentata dal terzo (rispetto al soggetto segnalante e alla P.A.) che ritenga di essere stato pregiudicato dall’attività segnalata. Si tratta di una ipotesi del tutto eccezionale se si tiene conto che il legislatore, in ambito amministrativo, quando vuole qualificare il silenzio, lo fa in termini di diniego, attesa la regola generale del silenzio-assenso.

Ciò che occorre chiedersi è se, nel caso di silenzio-inadempimento sulla SCIA, la tutela del terzo possa sfociare nella condanna della P.A. a esercitare il potere di controllo successivo tout court, ovvero nella condanna a esercitare il potere di controllo successivo nel senso di inibire, vietare, l’esercizio dell’attività e di ripristinare in conformità a quanto richiesto dal terzo stesso.

La risposta a tale quesito dipende dalla natura del potere amministrativo che viene in gioco, sulla base di quanto poc’anzi illustrato.
Orbene, nel caso di SCIA, il potere di controllo successivo della P.A. è bifasico: nella prima fase è un potere vincolato e nella seconda fase (decorsi i 60 giorni) è discrezionale. Pertanto, in linea teorica si potrebbe concludere nel senso che nella prima fase al giudice sia consentito emettere una condanna pubblicistica, inibendo e vietando l’attività posta in essere dal segnalante, mentre nella seconda lo stesso possa limitarsi a condannare la P.A. esclusivamente a eseguire il controllo.

Tutto dipende in sostanza da quale potere solleciti il terzo e cioè entro quale termine lo stesso presenti l’istanza: l’unico potere di controllo successivo che può essere sollecitato e a fronte del quale è possibile ottenere una sentenza di condanna è quello discrezionale, decorrente dallo scadere dei sessanta giorni previsti ex lege per consentire alla P.A. di eseguire il controllo vincolato. In altri termini, il potere che il terzo può sollecitare e il silenzio-inadempimento che può impugnare davanti al giudice è quello che si forma a fronte dell’esercizio di un potere discrezionale di controllo successivo. Pertanto, la tutela del terzo è una tutela debole, in quanto non gli consente di ottenere dal giudice il bene della vita anelato, bensì esclusivamente la condanna della P.A. ad esercitare un potere di controllo che, però, è discrezionale.